Man in the Dark: la recensione
In sala il film noto all'estero come Don't Breathe, un home invasion che prova a rovesciare qualche regola
Criticamente acclamato come film di paura dell’anno, Don’t Breathe di Fede Alvarez esce in Italia come Man in the Dark. Entrambi i titoli si riferiscono alla trama: man in the dark, un cieco violentissimo appostato nell’oscurità; e non respirare perché quel cieco violentissimo ti sta dando la caccia e potrebbe sentirti.
Il film è un home invasion, con la sua solita premessa: qualcuno entra in casa di qualcun altro carico di cattive intenzioni, e poi… Con rare eccezioni, il mostro è l’invasore, e le persone attaccate devono difendersi in uno spazio chiuso che fino a poco prima era un rassicurante focolare domestico. È una formula che viene usata così spesso, da generare molte variazioni sul tema. In Man in the Dark, i protagonisti sono gli invasori; non sono cattivi, sono rapinatori disperati, fondamentalmente non violenti; la loro “vittima” è un ex militare non vedente, impazzito a causa della morte della figlia. Inutile dire che la rapina va male e la casa si trasforma in una trappola in cui i personaggi si dibattono cercando di sfuggire al loro destino di carne da macello.
La scelta di un cattivo disabile dovrebbe aggiungere originalità: gli invasori hanno dei vantaggi perché ci vedono, ma l’avversario ne ha altri perché sa muoversi senza luce e ha sviluppato i suoi sensi. Il film non sfrutta granché gli spunti offerti da questo equilibrio, ed è un peccato, perché quando lo fa produce i risultati migliori (la sequenza al buio nello scantinato). Pensando a film recenti, Hush – Il terrore del silenzio usa ispirazioni analoghe a quelle di Man in the Dark, partendo da una variazione sul tema ancora più semplice (ragazza non udente viene attaccata in casa) ma con risultati più emozionanti. Non è di certo il primo home invasion a trasformare la vittima in Big Bad: viene in mente Shut In (2015), dove la protagonista è invalidata da una fobia che le impedisce di uscire di casa, ma una volta attaccata si rivela più pericolosa dei suoi aggressori.
Appurato che le sue premesse non sono poi così rivoluzionarie, il vero problema di Man in the Dark è la noia. Conosciamo a menadito la situazione, quindi chi gira un home invasion non solo non deve sbagliare niente, ma deve anche fare i salti mortali per farci appassionare alla vicenda e ai personaggi. Qui cade Man in the Dark: il primo tempo si trascina come una premessa che dobbiamo stare a sentire per forza: protagonisti che rapinano perché vengono da famiglie disastrate, un avvicinamento senza brividi al bersaglio e l’ovvio precipitare della situazione. Alvarez a questo punto ha già fatto fuori metà del film. La seconda metà si rianima, ma ormai è troppo tardi. La scena più celebre coinvolge una peretta che gli americani usano per farcire il tacchino, e che a noi ha fatto pensare subito al Fertility Day. La parte finale dell’inseguimento è la più concitata, ma anche qui, quello che compiace il pubblico non è la costruzione di una storia dove il legarsi degli elementi faccia veramente paura. Questo manca, e il film si regge esclusivamente su poche trovate, che da sole non bastano. Troppo poco, per tanto clamore.
Sara M. | ||
6 1/2 |
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