1303 – 3D: la recensione
Mancanza di idee e cattiva realizzazione, non basta l'inutile 3D
L’immagine simbolo di 1303 – 3D di Michael Taverna si condensa come un ectoplasma a cui non si vorrebbe credere: il temibile fantasma sfodera dal proprio armamentario del terrore nientemeno che una poderosa spinta all’inquilina dell’appartamento infestato. Beninteso, però: è una spinta in 3D. il problema resta l’assenza di spinte creative, in un’infestazione di banalità (l’ennesima casa degli spettri), che prova a ravvivarsi dichiarando dal titolo il ricorso a una tecnologia pressoché superflua, dopo aver già pescato una sterile inventiva dal modesto originale giapponese di Aitaru Oikawa (2007). Vien da pensare: l’horror è stra-morto.
TRAMA, E NON SI TREMA – I disperati tentativi di rianimazione vengono da una sceneggiatura che ambisce persino a darsi la posa drammatica di qualche vecchio film di Elia Kazan: la madre è un’artista fallita, single, semi-alcolizzata, al punto che la figlia minore non resiste e va a vivere da sola. L’accoglie nello stabile una bambinetta, vicina di casa, che biascica profezie da teen-Cassandra mentre gioca con la palla, e un viscido padrone di casa, assai lesto a chiedere di poter vedere le tette. Finisce male, quando nell’appartamento 1303 – inferiore, anche numericamente, a 1408 – comincia a far capolino la presenza di una suicida. L’altra sorella, non meno esasperata, prova a indagare, coadiuvata dal fidanzato della minore, che si rivelerà un detective, stranamente ibridato a un acchiappafantasmi. Altro “precipitare” di eventi, senza vero crescendo di tensione: si va avanti a spallate e sussulti.
COME SMONTARE LA TENSIONE – Appunto: basterebbe l’esercizio di ascolto degli effetti sonori per farsi un’idea di tutto il dilettantismo di 1303 – 3D: non solo le classiche impennate repentine di decibel per artificiose ed effimere sbandate, ma persino una modulazione di suoni che a tratti asseconda i gesti dei personaggi un po’ come in certi sketch animati o in vecchie comiche del muto. C’è anche un mostro nell’armadio, ormai putrefatto, stanco d’aspettare la solita parte nel mobile in naftalina. Agghiacciante, semmai, è il montaggio autolesionista, che abbandona la scena nel mezzo del presunto climax, per staccare altrove o cambiare totalmente scena: inspiegabili scelte che fanno pensare a una travagliata postproduzione o a semplice mancanza di savoir faire.
Ecco, allora, che da un lato si rimpiangono titoli che i palati più fini osano ancora denigrare, come i buonissimi Insidious – sequel compreso – o L’evocazione di James Wan, in cui quantomeno funzionava il mestiere, o altri casi di remake dal Giappone, miniera di americanizzazioni spesso in necessarie, ma in alcuni casi più che dignitose: non tanto The Grudge da Ju-on, rifatto dallo stesso Shimizu, quanto The Ring di Gore Verbinski dal Ringu di Hideo Nakata. Le vie dell’horror sono infinite: se ne posson fare di buoni per creatività, o anche solo per buon artigianato. 1303 – 3D pecca in entrambe, né gli conferisce spessore l’interpretazione di Mischa Barton nei panni di Lara, la sorella maggiore: l’ex icona di O.C., con un rispettabile curriculum – tra cui la partecipazione a Il sesto senso – finisce per smarrirsi nell’angustia di uno script approssimativo e velleitario.
Privo d’idee e ancor più di tensione, 1303 – 3D di Michele Taverna evidenzia i peggiori difetti di certo horror contemporaneo – il riciclaggio, la seduzione apparente del 3D – senza redimersi, a differenza di altri prodotti commerciali, con un’esecuzione in grado di tenere alta la tensione.
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