Hates – House at the End of the Street: la recensione
Il gusto di una bionda, Jennifer Lawrence, in un film insapore
Tempi di crisi per il mercato delle case, se nella casa del vicino, anni prima, una famiglia era stata massacrata dalla minore: sorta di Cappuccetto Rosso (sangue), poi sparita nei boschi senza che nessuno ne sapesse altro. Questo è il c’era una volta di Hates – House at the end of the street di Mark Tonderai, poi Psycho begins: perché è rimasto solo il maschietto, di quella famiglia, con qualche disturbo d’identità, un segreto in cantina e una vicina dagli ormoni ribollenti e dalla sensibilità da diciassettenne, Elissa (Jennifer Lawrence). Tra il giovanotto, Ryan (Max Thierot), e l’adolescente, si mette la madre della neo-arrivata, Sarah (Elisabeth Shue): genitrice protettiva, quasi fino all’asfissia. Ma stavolta, forse, c’è davvero da proteggere.
ON SALE CASA MALEDETTA SENZA SALE – Il censimento delle case maledette o dai vicini inquietanti nel genere horror permetterebbe di affollare gli almanacchi con tante crocette quante se ne vedon nei cimiteri. Ma dimenticate Quella villa accanto al cimitero di Fulci, così come L’ultima casa a sinistra di Wes Craven: l’agenzia immo-biliare è diversa, di quelle – purtroppo – che attacchi di bile o di adrenalina ne fanno venir pochi. Il regista Mark Tonderai, ex disc jockey e scrittore, ama, a quanto pare, le incursioni nel thriller psicologico (Hush, 2009, ma non affrettatevi a vederlo), e in occasioni del genere si veste pure con eleganza: l’abito visivo, che esibisce tutta la muscolarità del giovane director piacione, si trastulla tra fuori fuoco, virate fotografiche caldo/freddo (le tonalità bluastre sono usate per i brividi dei flashback e delle scene nel bosco), rototraslazioni in piano sequenza ed avvitamenti della macchina da presa negli interni, senza stacchi del montaggio, come cauti movimenti di vittime predestinate nel luogo del futuro delitto.
BRITISH SENZA BRRR – A un certo punto, verrebbe spontanea un’associazione visiva nemmeno troppo balzana, con la celebre e frustrante carrellata in Frenzy di Hitchcock, che prende per gli occhi lo spettatore e lo lascia sulla soglia della porta, serrata, dietro la quale si perpetrerà un assassinio. Aleggia, in effetti, un vago umore da Psycho, se non altro – considerando anche lo scioglimento – per la morbosità covata in famiglia, per il personaggio di Ryan così disturbatamente mansueto, ma soprattutto per il rapporto spettatore/personaggi, in cui molto si sa rispetto agli inermi attori, sicché la partita si gioca per lo più sulla suspense, anziché sul rompicapo whodunit (chi l’ha ucciso?), così inviso al maestro britannico del terrore. British è anche Tonderai, ma la classe non si compra all’anagrafe: ed allora è più esplosivo il petto di Jennifer Lawrence in canotta bianca quasi laracroftiana, che il nostro cuore nel petto, nella gabbia toracica che non sussulta, ingabbiato dalle banalità.
LA BAMBOLA DA ASSASSINARE – Siringhe sparse di adrenalina non mancano, per rianimare un dramma morto dalla sceneggiatura incolore: le situazioni più interessanti sono proprio quelle da sempiterno cliché, come gli inseguimenti, i giochi a nascondino nella casa del misfatto, i ripostiglietti da cui fuggire, le scale a chiocciola in penombra. Labirinti domestici, insomma, col filo di Arianna di una mobile macchina da presa che bracca, s’intrufola, s’avanza circospetta. Ci sarebbe da che intimorirsi, qua e là, se non fosse per il fallimento dei labirinti psicologici: ambìti, ma del tutto inconsistenti. Sono scene da piattume drammatico che rasenta il ridicolo quelle che vedono Jennifer Lawrence che, dal nulla, con bollore da diciassettenne salta addosso a Ryan, oppure un omicidio involontario in cui un collo si spezza come un grissino, o il superpiedipiatti ghe pensi mi che ingaggia il duello d’armi col giovane; o ancora la pioggia a catinelle che costringe Elissa ad accettare, suo malgrado, il passaggio dello sconosciuto della porta accanto: un’improvvisata alla Giugliacci, insieme a tutti i passaggi frettolosi che dissolvono anche quella sana aura noir, nubi nere disperse al soffio di un teen movie. Per citare un film ironicamente citazionista, ossia Quella casa nel bosco di Drew Goddard, non manca nemmeno la bella vergine.
Sopravvive, con la classe innata del physique du rôle, una Jennifer Lawrence in versione bambola da assassinare, il cui aureo biondame non ha nemmeno da macchiarsi di rosso: senza strane gocce sul corpo di Jennifer, Hates – House at the end of the street vorrebbe campare di ferite psicologiche da diagnosticare, feritoie visive da cui spiare scantinati e segreti domestici, ferocia stilistica con cui aggredire lo sguardo. Ma sembrano Hunger Games: giochetti che ci lasciano ancora la fame di vedere, tanto è scarno lo script, tanto è scipita la carne al fuoco, tanto è insipido il contorno psicologico. Più che un acronimo, Hates di Mark Tonderai è un anonimo.
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