La sezione ‘Rapporto confidenziale’ del Torino Film Festival, solitamente una delle più interessanti della kermesse sabauda, quest’anno è dedicata al tema delle ‘Ossessioni’ , rappresentate, oltre che da una manciata di commedie amare, soprattutto da film o dichiaratamente horror o che giocano con le regole e le suggestioni del genere. Tra i film scelti per la sezione, Citadel dell’irlandese Ciaran Foy è stata una piacevole sorpresa, mostrandosi come una delle opere più interessanti e riuscite.

Foy rielabora una disavventura realmente capitatagli in giovinezza (a questo proposito, il regista ha definito il film come metà horror e metà autobiografia), quando, dopo essere stato aggredito da una baby gang, ha sofferto a lungo di agorafobia. Proprio di questa malattia soffre Tommy, a seguito del trauma provocato dalla letale aggressione alla moglie compiuta da un terzetto di giovani incappucciati in un palazzone (la ‘Citadel’ del titolo) della periferia di Dublino.  La moglie gli ha lasciato una figlia, che il giovane deve difendere dagli assalti dei teppisti intenzionati a prendersi anche lei. Con l’aiuto di un prete un po’ stravagante e di un bambino cieco, Tommy capisce che dovrà affrontare il male alla radice per salvare la figlia e superare le proprie paure.

Citadel rappresenta la malattia e le paure del protagonista con le armi dell’horror claustrofobico, le cui atmosfere squallide e opprimenti si basano sul grigiore del degradato sobborgo e della decadente casa in cui si svolge la vicenda, ‘esaltati’ dall’efficace fotografia di Tim Flening. Il quartiere, in particolare la palazzina in cui accadde la tragedia, appare quasi come un ulteriore personaggio, il cui squallore e l’insita inquietudine sono resi ancora più evidenti dalle proiezioni della malattia del protagonista. Il contrasto tra l’effettivo degrado della zona e lo stato interiore e psicologico di Tommy crea un’efficace ambiguità di fondo su cui si regge la prima parte: non si sa quanto e se le minacce costituite dalla baby gang siano reali o siano frutto della paranoia del personaggio. Nella prima parte i teppisti non vengono mai inquadrati da vicino, né si vede il loro volto, sempre coperto dal cappuccio della felpa. Rappresentati come se fossero fantasmi o zombie, il sospetto che siano frutto dell’ossessione del protagonista rimane per metà film. In questo modo, l’ambiguità della prima parte risulta un ottimo mezzo per simboleggiare gli effetti della malattia di Tommy e l’angoscia da lui provata.

Il tono di Citadel cambia, però, quando diventa visibile e viene spiegata la vera natura dei membri della banda: persa quell’atmosfera di ambiguità, il film per un attimo sbanda rischiando di uscire di strada, ma riesce, per fortuna, a rientrare in carreggiata. La parte finale acquista un più evidente tono ‘soprannaturale’ (termine in realtà impreciso, ma non vogliamo spoilerare nulla) e un ritmo più accelerato, coincidente con il viaggio decisivo nella torre da cui tutto è partito. Questo viaggio è la resa dei conti con il male tipica di molto cinema horror, che assume, in questo caso, anche un evidente valore catartico. La ‘missione’ finale coincide infatti con il superamento delle paure e dell’agorafobia di Tommy.

Il film di Foy ha il suo punto di maggiore interesse, quindi, nella continua allegoria che lega gli schemi e le atmosfere tipici di molto cinema horror (senza dimenticare che non mancano riferimenti al western) con la condizione e lo sviluppo del protagonista.

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