Dopo Le onde del destino (1996) e Idioti (1998), con Dancer in the Dark (Palma d’oro al Festival di Cannes del 2000) Lars Von Trier chiude la cosiddetta “trilogia del cuore d’oro”, quella trilogia di film incentrati cioè attorno a figure femminili il cui forte idealismo e altruismo soccombono di fronte al cinismo della società. In Dancer in the Dark il piano dell’ideale viene a coincidere con quello della musica: con effetto straniante, Von Trier inserisce infatti coreografie da musical hollywoodiano (il titolo stesso richiama una canzone di Fred Astaire) all’interno di un angosciante intreccio da teatro naturalista scandinavo dai risvolti moralistici.

Björk, qui nella sua prima e unica prova attoriale (premiata a Cannes), interpreta la vittima sacrificale di questa storia nera, Selma, un’operaia cecoslovacca emigrata in America, afflitta da una malattia alla vista che la condanna a una crescente cecità. Incondizionatamente altruista, Selma lavora duramente alla pressa per mettere da parte i soldi necessari per fare operare il figlio, erede della sua stessa patologia agli occhi. Presto preda dell’avidità e del cinismo umani, si ritrova a commettere involontariamente l’omicidio del suo padrone di casa Bill (David Morse), che l’ha derubata di tutti i suoi risparmi, quindi a subire un processo che si conclude con la sua condanna a morte. Verrà impiccata dopo aver eroicamente rinunciato a riaprire il processo per non destinare all’avvocato difensore i soldi riservati al figlio. Due sono le figure positive che accompagnano Selma durante la sua straziante via crucis: la collega e amica dall’animo nobile Kathy (una Catherine Deneuve non al massimo della forma) e Jeff (Peter Stormare), un uomo buono e vagamente ritardato che si dichiara innamorato di lei.

Ma l’unica vera via d’uscita da una realtà che da grigia si fa sempre più intollerabile è la musica. Nelle prime sequenze del film, troviamo Selma alle prese con la prove del celebre The Sound of Music (1959), il musical teatrale di Rodgers e Hammerstein da cui fu tratto il film conosciuto in Italia come Tutti insieme appassionatamente (1965). In Dancer in the Dark il musical è però soprattutto espressione delle fantasticherie e delle trasfigurazioni idealistiche dell’eroina: ecco quindi che i rumori dei macchinari della fabbrica, l’ansito di un treno a vapore sui binari, le voci del processo e persino il battito dei centosette passi che separano la cella dal patibolo diventano la base ritmica su cui Selma-Björk fa crescere ed esplodere la sua voce. Prendono vita, così, numeri musicali eredi tanto del musical hollywoodiano anni 60, quanto del modernismo alla Bob Fosse (il film omaggia inoltre Jacques Demy, presente in un piccolo cameo nella scena del processo).

Attraverso questa insistita, esibita dicotomia realtà-ideale, Dancer in the Dark viene a configurarsi da un lato come una destrutturazione delle regole del genere musical finalizzata alla sconfessione del sogno americano (e implicitamente il film è anche una denuncia della pena di morte), dall’altro come una celebrazione del potere consolatorio e trasfigurante della musica e dell’arte in genere.

La dicotomia si rispecchia anche in scelte formali contrastanti: ai colori desaturati e alle riprese traballanti girate in bassa definizione con cinepresa a mano con cui viene rappresentata la realtà, in base ai canoni di Dogma 95, si contrappongono i colori brillanti e lo stile più classico, studiato nel taglio e nel montaggio, dei numeri musicali, il più famoso dei quali (la scena del treno che accompagna I Have Seen It All, il duetto di Björk e Thom Yorke) è stato girato addirittura con un centinaio di camere.

Nel corso del film, Von Trier spinge spesso il gioco all’estremo, tradendo il vizio di manipolare lo spettatore con shock emotivi e visivi, in nome di un’idea di cinema puro e selvaggio. Così, se l’idealismo di Selma rischia di risultare stucchevole tanto è limpido e incontrollato, l’esasperante, meticolosa lentezza con cui il regista si sofferma sulle scene più disturbanti (l’omicidio, l’impiccagione) appare furba e autocompiaciuta. Discorso analogo vale per l’uso sovrabbondante di inquadrature manuali, che spesso, specie nella prima parte, finisce per scivolare nel puro onanismo.

Pur nei suoi eccessi, Dancer in the Dark rimane comunque uno dei film più sinceri del regista danese, capace ancora oggi di sedurre e sorprendere per il forte vitalismo da cui è percorso, per l’inedita mescolanza di generi, per la libertà espressiva, per le molteplici suggestioni oniriche, per l’affascinante ambientazione (un’America bucolica ricostruita in Danimarca) e per l’ottima interpretazione, attoriale e canora, del folletto islandese.

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