In questa sessantaquattresima edizione del Festival di Berlino, il cinema italiano è decisamente poco rappresentato: oltre al documentario di Gianni Amelio Felice chi è diverso, il Belpaese è presente con In Grazia di Dio, ultima fatica del regista salentino Edoardo Winspeare, presentata nella sezione Panorama, dove, considerando la durata e l’intensità degli applausi, ha riscosso un ottimo successo, alla presenza del ministro della cultura Bray venuto apposta a Berlino. Applausi meritati, per un’opera – pur imperfetta – lieve e allo stesso tempo potente, che parla degli effetti della crisi senza moralismi, senza piangersi addosso e senza la denuncia retorica stile “Piove, Governo ladro”, ma descrivendo, con partecipazione, gli effetti sul privato. Il film ritrae un quartetto di donne (nonna, figlie e nipote) che la chiusura della piccola fabbrica tessile a conduzione familiare obbliga a una sorta di ritorno alla campagna, che allo stesso tempo accentua e riappiana i conflitti tra le quattro, allontanandole e riavvicinandole continuamente. Winspeare non rinuncia ai cardini più riconoscibili del suo cinema: l’ambientazione nel Salento, contemporaneamente splendido e desolato come fosse il set di uno spaghetti western, il naturalismo del dialetto stretto, dei personaggi e delle situazioni, che viene trasfigurato da un continuo sottofondo “mistico”, legato sia alla religione come abitudine radicata, sia agli accenni a una natura dal carattere quasi panteista, che agisce sulle convinzioni dei personaggi. Con la narrazione che avanza quasi impercettibilmente, bozzetto dopo bozzetto, In grazia di Dio regala un sincero quartetto di ritratti femminili, con cui è facile essere partecipi, suggerendo anche una possibilità per sopravvivere alla crisi, senza però l’arroganza di voler dare una soluzione netta e concreta.

La sezione Panorama ha offerto, nella categoria documentari, anche una delle ultime fatiche del prolifico e instancabile Michel Gondry, questa volta alle prese con uno dei più importanti pensatori del ventesimo secolo: Noam Chomsky, la cui figura viene raccontata in Is the Man who is Tall Happy?. Il documentario racconta i colloqui avuti dal regista con l’intellettuale, il quale si racconta divertito, sia per quanto riguarda il suo pensiero che per quanto riguarda la sua biografia. Non pensate, però, a un documentario tradizionale, né a un film intervista come tanti altri: stiamo pur sempre parlando di Gondry, il quale ha pensato di tradurre il tutto nel linguaggio dell’animazione (ricordiamo che Gondry è anche un disegnatore e un autore di graphic novel). Is the Man who is Tall Happy? diventa così un documentario animato, molto ironico e fantasioso; l’animazione, da un lato, mira a spiegare con le immagini, dall’altro agisce come contrappunto ironico, in particolare riguardo l’inferiorità intellettuale provata dal regista. In questo modo Gondry, chissà quanto consapevolmente, non sacrifica il suo ego, e la sua presenza filmica è così pari a quella del pensatore a cui il film è dedicato.

Non è un documentario, ma è comunque basato su una storia vera (per quanto filtrata già dalla pièce teatrale a cui il film è ispirato) Diplomatie, del tedesco Volker Schlondorff. Ambientato nel 1944, durante la notte in cui è stato in gioco il destino di Parigi: il generale a capo delle truppe tedesche nella capitale francese, considerata l’imminente capitolazione, da l’ordine di radere al suolo la città, e viene fatto desistere solo dall’intervento da un lungo incontro/confronto con l’ambasciatore svedese. L’originalità del film è nel fatto che appare come una sorta di “kammerspiel bellico”: totalmente (escluse la scena iniziale e quella finale) girato tra le quattro mura dell’ufficio del generale tedesco, vive dei dialoghi e della contrapposizione di due uomini non così lontani come si potrebbe immediatamente pensare. L’impostazione teatrale è fin troppo esplicita, nonostante i continui movimenti della cinepresa e la fotografia cerchino di dare una parvenza più cinematografica all’opera, ma questa interpretazione del film bellico è comunque interessante e coinvolgente, sorretta in maniera decisiva da due grandi istrioni: il francese André Dussolier e il tedesco Niels Arestrup.

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