Un fulmine a ciel sereno. Con questa improvvisa violenza ci ha colti tutti quanti la notizia della morte di Philip Seymour Hoffman, lasciandoci senza parole. Uno dei migliori attori della sua generazione, se non il migliore, se n’è andato a soli 46 anni, ucciso da un’overdose di eroina, lo scorso 2 febbraio. Non ci soffermeremo oltre sui dettagli della sua morte. Ci limiteremo a ripercorrerne la folgorante parabola, con l’illusione di farlo rivivere un’ultima volta, attraverso i suoi film.

Nato a Fairport, New York, il 23 luglio 1967, Hoffman iniziò la sua carriera di attore negli anni del liceo, dopo che un infortunio al collo lo costrinse a rinunciare al suo sogno di allora di diventare un wrestler. Si affermò presto a teatro in vari spettacoli durante l’università, con la regia del compagno di studi Bennett Miller, e questo gli aprì le porte del cinema, nel quale esordì nel 1991. Il suo primo ruolo di un certo livello fu in Scent of a Woman – Profumo di donna (1992) di Martin Brest.

Biondo, grassoccio e di media statura, Hoffman non aveva certo il fisico da leading man hollywoodiano, ma non tardò a dare prova del suo immenso talento anche sul grande schermo. Da sapido caratterista, divenne nel giro di pochi anni uno degli interpreti più richiesti del cinema indipendente americano, recitando per i migliori registi di quel settore: Paul Thomas Anderson lo volle con sé per Boogie Nights – L’altra Hollywood (1997), Magnolia (1999) e Ubriaco d’amore (2002), i fratelli Coen lo scelsero per prendere parte a Il grande Lebowski (1998), Todd Solondz lo chiamò per Happiness – Felicità (1998). E ancora, recitò sotto la direzione di Anthony Minghella ne Il talento di Mr. Ripley (1999) e in Ritorno a Cold Mountain (2003), di David Mamet in Hollywood, Vermont (2000), di Spike Lee ne La 25^ ora (2002). Interpretazioni eccellenti, che hanno come tratto in comune, salvo rari casi, la natura gentile, impacciata e spesso timida dei personaggi interpretati.

L’ulteriore salto di qualità avvenne nel 2005, quando l’amico Bennett Miller gli affidò il ruolo di Truman Capote in Truman Capote – A sangue freddo. Fu una prova straordinaria, nella quale Hoffman mise in mostra un’innata capacità di dominare la scena con una recitazione istrionica, tuttavia mai eccessiva, vincendo un meritatissimo Oscar come attore protagonista.

Da quel momento in poi, per il biondo attore fu un susseguirsi di successi di pubblico e di critica, sia nel campo del dramma che della commedia: al primo settore appartengono le virtuosistiche e sofferte interpretazioni in Onora il padre e la madre (2007) di Sidney Lumet, La famiglia Savage (2007) di Tamara Jenkins e Il dubbio (2008) di John Patrick Shanley, al secondo le spassose caratterizzazioni ne La guerra di Charlie Wilson (2007) di Mike Nichols e I love Radio Rock (2009) di Richard Curtis. Nel frattempo, si concesse anche la parte del villain nel blockbuster action di J.J. Abrams Mission: Impossible III (2006), pur senza dimenticare il suo primo amore, il palcoscenico, interpretando un regista teatrale in Synecdoche, New York (2008), diretto da Charlie Kaufman e ancora inedito in Italia.

Dopo aver esordito dietro la macchina da presa con il film, anch’esso inedito da noi, Jack goes boating (2010), e aver recitato da non protagonista ne Le idi di marzo (2011) di George Clooney e L’arte di vincere (2011) ancora di Miller, nel 2012 Hoffman fu diretto nuovamente da Paul Thomas Anderson nel controverso The Master. La sua interpretazione del leader di una setta religiosa simil-Scientology gli fruttò la Coppa Volpi a Venezia ex aequo con Joaquin Phoenix, e fu l’ennesima consacrazione di un carisma da trasformista conquistato sul campo. Un attore tanto magnetico e straripante sullo schermo quanto schivo e riservato nella vita, vissuto lontano dai gossip e poco a suo agio negli eventi mondani.

Il suo addio al cinema (salvo opere postume) è stato nella parte dello stratega nel blockbuster young adult di Francis Lawrence Hunger Games – La ragazza di fuoco (2013), con il quale si è fatto conoscere anche dal pubblico giovanile. Ha lasciato la compagna, la costumista Mimi O’Donnell, tre figli di 10, 7 e 5 anni e un’enorme voragine di talento e personalità nel cinema mondiale e nei nostri cuori.

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