Inizialmente, il film di Daniele Luchetti avrebbe dovuto intitolarsi Storia mitologica della mia famiglia, titolo che avrebbe messo immediatamente in luce il carattere autobiografico alla base dell’opera, anche di quei fatti inventati, ma comunque simbolo di sensazioni e problematiche reali.

Luchetti rappresenta uno spaccato della sua famiglia durante l’estate 1974: il padre Guido (Kim Rossi Stuart) è uno scultore d’avanguardia, mentre la madre Serena (Micaela Ramazzotti) è una donna semplice, d’estrazione piccolo borghese, senza particolari sogni e aspirazioni, ma attraversata da una sempre meno implicita inquietudine. L’influenza delle istanze culturali e libertine di quegli anni e il sempre più evidente cambiamento della mentalità familiare tradizionale condizionano la vita di coppia, fatta di continui allontanamenti – “mentali” più che fisici – che accentuano ulteriormente la differenza tra Guido e Serena, ma accentuano anche la loro necessità di sapere di avere vicino l’altro. Il tutto è visto dagli occhi del piccolo Dario, alter ego del regista, e dall’occhio della sua prima Super 8. Tanto per ribadire il concetto dell’autobiografia, la voce narrante è proprio quella di Luchetti.

Le coordinate temporali sono date da piccoli particolari sullo sfondo dell’inquadratura, posti però in modo da non potere non essere colti, come nel caso del manifesto a favore del “No” al divorzio sostenuto dalle donne della famiglia Cervi, oltre che ovviamente dagli abiti, dagli ambienti e dalle atmosfere. Per il resto, il pubblico e il politico di quegli anni sono quasi del tutto assenti, ma in realtà appaiono nelle conseguenze avute sulla famiglia percepibili dal piccolo Dario. Ci troviamo di fronte quindi a un film del tutto personale e intimo, anche se la frase con cui si conclude – <<erano anni felici, ma non ce ne eravamo accorti> – legittimamente può essere letta come riferita non solo alla storia del piccolo Dario, ma più in generale alla nostra nazione, anche solo per il tono solenne e conclusivo con cui è stata detta.

La chiave intimista potrebbe far pensare di trovarsi di fronte al classico film italiano cosiddetto “medio autoriale”, soprattutto se si pensa alla produzione congiunta Rai-Cattleya; certamente, sotto più di un aspetto è così, ma Anni Felici conferma, dopo Mio fratello è figlio unico e dopo La nostra vita, il buon momento della carriera di Luchetti, capace di realizzare un film sotto molti punti di vista impeccabile e assolutamente piacevole. Se la sceneggiatura fila come un olio, la regia non si limita ad essere semplicemente professionale: si vedano i momenti in cui Serena è rappresentata come fosse parte di un’opera d’arte, segno sia della crisi della donna che della percezione di Dario, o l’interessante lavoro sui primi piani. Ciò detto, in Anni felici c’è qualcosa che non torna. Come ha fatto notare Andrea Chimento su cineforum: “Rimane un pizzico d’amarezza al termine della visione. c’è qualcosa che manca al film, apparentemente inattaccabile, per dirsi pienamente riuscito”; e il disagio sta proprio nel non riuscire a capire che cosa è manca. Non è una questione di uno stile solido ma poco incisivo, piuttosto è come se la spinta autobiografica di Luchetti abbia creato una sorta di “filtro” che ha trattenuto buona parte del calore e dell’emotività, facendo arrivare allo spettatore un’opera più fredda e meno urgente di quanto il regista romano volesse.

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