In epoca pre-internet, quando ancora i social networks e lo streaming on demand erano concetti del tutto astrusi, e pure il download selvaggio era di là da venire, poteva succedere di comprare o ascoltare un disco e perdersi dentro di esso. E fantasticare, immaginare un mondo dietro a una copertina o ad alcune foto. Potevi supporre la provenienza geografica da certe sonorità, se non trovavi immagini eloquenti o altro insomma.

Ecco, a quei tempi – prima del “villaggio globale” – avremmo dato per scontato che gli Smith Westerns fossero un gruppo inglese. Scopriamo invece che si tratta di una band di Chicago, non senza una piccola sorpresa. Nulla chiaramente contro Chicago, sia soprattutto per gli Wilco che anche per certe insane passioni cestistiche giovanili. Però questo pugno di canzoni sembra provenire da un altro luogo, o forse da un altro tempo: arrangiamenti eleganti che richiamano subito alla mente gli ultimi Beatles, ma anche melodie ariose e catchy che dimostrano la piena maturità raggiunta da un gruppo che esordiva solo qualche anno addietro su ben altre coordinate stilistiche.

Se i Fab Four sono il primo nome tirato in ballo per descrivere i Soft will, non mancano invero altri riferimenti da ricercare in terra d’Albione. La voce Brit-pop forse suggerirà qualcosa, ma non deve trarre in inganno. Non calchi pedissequi di certi inni 90s ma influenza strisciante che fa supporre come i ragazzi abbiano certamente consumato nelle propria cameretta gente come Teenage Fanclub, Oasis, James e via dicendo.

A impressionare comunque è, soprattutto, la freschezza compositiva eretta sugli intrecci di chitarra/tastiere e su certe armonie vocali; roba che si stampa subito nelle mente e minaccia di rimanervi a lungo, fino al termine dell’estate di sicuro.

Se l’inizio di 3 am spiritual è all’insegna dei sopracitati quattro di Liverpool, XXIII lambisce addirittura galassie pinkfloydiane, tanto da sembrare una outtake di Dark side of the moon. E’ tuttavia con l’innodica doppietta Fool proof/White oath che viene assestato il definitivo colpo da ko. La prima è pezzo in odor di Grandaddy mentre la seconda è ballad struggente, con il frontman Cullen Omori che proclama con crepuscolare mal-de-vivreChain smoked my days away, wrote my poems, even though no-one could ever hear them”. Dopo la pregevole Best friend e la nuova strizzata d’occhio beatlesiana Cheer up, si chiude col singolo Varsity, un commiato che è un’ode alla solitudine e alla malinconia giovanile. “I know it’s hard to be alone, count the days count the night but I don’t get by” canta il giovane Cullen. La gioventù è destinata ad avere una fine, lo spleen no.

Scritto da Fabio Plodari.

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