A Westeros è l’alba di un nuovo giorno, nonché di una season premiere. Non in senso climatico, però: nella stagione 3 di Game of Thrones (in arrivo anche su Sky Italia il 10 maggio) l’inverno è destinato a farsi ancor più rigido, come ci ricordano subito le scene d’apertura dell’episodio 3×01, Valar Dohaeris. Fra i ghiacci a nord della Barriera, i Guardiani della Notte, decimati dall’esercito di Estranei e non-morti, si mettono in marcia per annunciare la minaccia, dopo aver recuperato in extremis un Tarly più che mai scosso, ma non Jon Snow, che viene invece portato dai Bruti al cospetto di Mance Rayder. Diamo così finalmente un volto al Re oltre la Barriera: il profilo à la Toro Seduto / Severus Piton dell’annunciato Ciarán Hinds non delude le aspettative, mentre Kit Harington si aggiudica già il premio Kristen Stewart 2013 per le sue immutabili “doti” espressive.

Nell’episodio 3×02, Dark Wings, Dark Words, l’imbambolamento perpetuo del quasi-Stark sarà invece giustificato, una volta tanto: non si può che restare incantati di fronte alla manifestazione del potere degli warg, capaci di proiettare la propria mente nel corpo di un animale. L’episodio permette quindi di fornire finalmente una spiegazione anche per le visioni di Bran, in fuga verso la Barriera sulle spalle del fido Hodor, insieme a Rickon e alla leale Osha. Al gruppetto si aggiunge infatti il giovane Jojen Reed (Thomas Sangster), che compare prima sul piano onirico e poi su quello reale (con la sorella Meera) e svela a Brandon il legame con il lupo e con l’inquietante corvo a tre occhi, veicolo di premonizioni.

Nel frattempo Approdo del Re si riconfigura dopo la vittoria delle Acque Nere. A fare le spese del nuovo assetto è il pur vittorioso Tyrion, che qui vediamo in uno dei rari momenti di vulnerabilità, senza la maschera del geniale umorismo che lo caratterizza. Ancor più dell’essere stato esautorato e sfigurato, il Folletto patisce l’aperto disprezzo del padre Tywin, nuovo Primo Cavaliere. Ma anche Cersei dovrà stare in guardia: l’insediamento di Margaery Tyrell, nuova promessa sposa di Joffrey, mostra alla bionda reggente che odio e terrorismo non sono necessariamente l’arma migliore per governare. La scaltra signora di Altogiardino sceglie infatti di conquistarsi tanto il popolo, con una visita estemporanea all’orfanatrofio che accoglie i figli dei guerrieri periti durante la battaglia, quanto lo stesso reuccio, che sa adulare magistralmente solleticando la sua morbosa fascinazione sadica, in una fusione di eros e thanatos che si concretizza nella balestra, al contempo evidente simbolo fallico ed efficientissima foriera di morte.

Cersei gioca male le sue carte, lasciando trapelare la propria gelosia e allentando così la salda presa sul figlio, mentre Margaery e la caustica nonna Olenna Tyrell (Diana Rigg) circuiscono Sansa con tortine al limone e confidenze da tea party, spingendola a rivelare la vera natura di Joffrey (“He’s a monster”, che in fondo è quasi un eufemismo). La giovane Stark deve inoltre guardarsi da Ditocorto, che ha promesso di riportarla a Grande Inverno, ma che, come ormai ben sappiamo, ha sempre almeno un paio di obiettivi personali segreti. Su di lei veglia però Shae, che invoca anche l’aiuto di Tyrion per proteggere la ragazza da Lord Baelish (non senza adeguata ricompensa).

Intanto gli altri aspiranti al trono cercano di riorganizzarsi tra il morale in caduta libera per la sconfitta, i problemi di comunicazione e i conflitti intestini che minano la già scarsa compattezza dei vari schieramenti. A Roccia del Drago la temibile Melisandre esercita un potere sempre più forte e più oscuro su Stannis Baratheon, portandolo a compiere sacrifici umani e a imprigionare il fidato Ser Davos. Nel frattempo, nella tetra cornice di una Harrenhal distrutta e coperta dai corpi dei prigionieri massacrati, Robb Stark riceve la notizia della morte del nonno materno e della caduta di Grande Inverno, che esaspera lo sconforto di Lady Catelyn, già ammanettata dallo stesso Robb per aver liberato Jaime Lannister nel disperato tentativo di riscattare le figlie. Lo Sterminatore di Re, peraltro, è destinato a tornare ben presto fra gli artigli dei Lupi, dopo un’intrigante serie di scaramucce (verbali e a fil di spada) con la possente Brienne, che lo stava scortando ad Approdo del Re. Ma fra tutti è Theon a passarsela peggio: l’irruento Greyjoy si risveglia bendato e crocifisso, costretto a subire torture gratuite in attesa delle tenebre che permetteranno la rescue mission dello sgherro di Yara.

Le eroine della serie procedono intanto nei rispettivi percorsi. Arya Stark, fuggita da Harrenhal grazie all’aiuto di Jaqen, continua il viaggio con Gendry e Frittella, ma viene riconosciuta dal “Mastino” Clegane, a sua volta catturato dalla Fratellanza senza Vessilli. Nel frattempo Daenerys raggiunge la città di Astapor, nella Baia degli Schiavisti, e rinfoltisce il suo khalasar con gli Immacolati, eunuchi guerrieri resi insensibili al dolore e alla paura attraverso un pesantissimo addestramento. La coraggiosa khaleesi finisce poi per mettersi nuovamente in pericolo a causa del proprio istinto materno, ma viene salvata dal redivivo Ser Barristan Selmy, che la cercava sin dalla prima stagione.

A prescindere dal ruolo relativamente limitato di Arya e dalla spettacolarizzazione degli scenari across the Narrow Sea (che avvolgono gli spettatori, ma riducono anche l’agency di Daenerys), il bilancio dei giochi di potere di questo inizio di stagione risulta tutto sommato a favore della componente femminile della folta schiera di personaggi martiniani. Escludendo il momento di défaillance di Sansa e le reazioni infantili di Cersei, Approdo del Re risulta dominata da un nutrito stuolo di donne ben più accorte, responsabili e pro-attive delle controparti maschili, in primis l’intraprendente Margaery e la gradita new entry di Lady Olenna, che alleggerisce l’atmosfera con una schiettezza fulminante in stile Contessa di Grantham, merce rara a Westeros (“Grandmother! What will Sansa think of us?”;  “She might think we have some wits about us. One of us, at any rate”).

Fra gli uomini spicca invece (come sempre) un Peter Dinklage ormai in simbiosi perfetta con il proprio personaggio; le toccanti scene che evidenziano i punti deboli di Tyrion danno corpo al conflitto interiore già emerso nella scelta del Folletto di restare ad Approdo del Re, where he belongs. Risultano invece meno incisive le sequenze di introduzione al primo episodio e a Mance Rayder, fortemente penalizzate dalla tempistica televisiva, ma anche da scelte in parte infelici: si poteva, ad esempio, sacrificare qualche minuto di dialogo fra Ros e Shae o fra i vari gruppetti in viaggio, ottenendo un minimo di margine per dare il giusto peso alla battaglia del Pugno dei Primi Uomini (la cui collocazione off-screen vanifica il cliffhanger alla fine della seconda stagione) o per evitare le cesure a colpi di mannaia (pur nella consapevolezza che la vastità di materiale, di location e di personaggi non avrebbe comunque permesso di raccordare le varie storyline in modo armonico). Nel complesso si tratta comunque di una buona ripresa, che non raggiunge l’eccellenza di alcuni episodi delle passate stagioni, ma che è pur sempre un degno “banner-show” della HBO.

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