Ok, lasciate perdere i Supertramp. Il fatto che la band inglese fosse stata citata da Kevin Parker, deus-ex-machina dei Tame Impala (psycho-creatura scaturita dalla sua mente più che band tout court), aveva lasciato tutti di stucco allorché, ad inizio ottobre, aveva inizio il giro di interviste per il lancio di Lonerism.

Il sophomore album dell’australiano ha sì solide radici nei 70s, ma al momento non siamo ancora delle parti di certe tediose voci in falsetto e prog-pop per le masse. Quel che emerge fin dal primo ascolto e via via si consolida è, semmai, un affinamento della formula dell’esordio Innerspeaker (QUI la recensione). Indie goes mainstream, insomma.

Cosa, quindi, che non deve far stupire per la citazione di cui sopra, così come la sfida nell’ambito della popular music con gente come Britney Spears (o affini, sceglietene una voi, tanto non cambia). In questo nuovo decennio va di moda citare tutto ed il contrario di tutto, ivi comprese certe pop-stars oscene pure ai tempi loro, e l’abbattimento dei generi –così come delle citazioni- è ormai à la page nell’indie-world sotto il protettorato pitchfork-iano. Al netto di tutta una serie di elucubrazioni (leggasi anche seghe mentali) e citazionismo più o meno colto, va affermato che, quando ci si trova di fronte ad un gran disco, tutto ci può star bene. E questo ne è caso assolutamente lampante.

La proposta di/dei Tame Impala è ancora ammantata da nebbioline psichedeliche provenienti come da un tunnel spazio-temporale dalla seconda metà dei Sessanta, ma sposta altresì il suo baricentro verso il decennio successivo, in un limbo collocabile a metà strada tra i Pink Floyd post-Barrett e Todd Rundgren.

Da ascoltare in tal senso sono Keep on lying –che non avrebbe sfigurato su Something/Anything o A wizard, a true star) come pure Apocalypse Dreams. Il primo singolo estratto Elephant si caratterizza, invece, per un deciso piglio sabbathiano ed è diretto tanto quanto lo possono essere certi pezzi dei Black Keys. In chiave stoner.

Detto di una Endors toi che si ricollega alla neo-psichedelia di gente come Flaming Lips, Mercury Rev e MGMT, dove ovviamente il minimo comun denominatore è un “certo” Dave Fridmann al lavoro pure su Lonerism, è inutile negare e tirar troppo per le lunghe circa quello che è e rimane padre spirituale di questo progetto. John Lennon – sia nella veste solista, sia nella fase psych dei Beatles (epoca Revolver/Magical Mystery Tour) – è ombra palpabile dietro queste composizioni, a partire dal timbro vocale di Kevin Parker che, non per niente, ricorda quello del più intellettuale e avantgardista dei Fab Four. Si prendano ad esempio Mind Mischief o la chiusura struggente e pianistica di Sun’s coming up. Il vero capolavoro rimane tuttavia Feels like we only go backwards che, se solo fosse stato scritto 45 anni fa, probabilmente starebbe al posto di una Lucy in the sky with diamonds. Brano in grado di lanciare con nonchalance ponti lisergici verso altre dimensioni, per poi permetterci di perdere noi stessi tra estatiche immagini in technicolor. Per la serie: psichedelia portami via.

Scritto da Fabio Plodari.

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