Arriva nelle sale l’attesissimo Les Misérables di Tom Hooper, adattamento dell’omonimo musical, tra i più amati e rappresentati di sempre, e l’accoglienza è quasi unanimemente entusiastica. Unica accortezza preliminare, a detta di molti: il musical stesso resta “ovviamente” l’unico termine di paragone legittimo e le soluzioni di regia vanno valutate per la loro efficacia e potenza nel rappresentare la materia teatrale in questione. Premessa, in realtà, piuttosto fuorviante, e che limita l’orizzonte critico ad un movimento centripeto, che rinuncia alla densità storico-semantica a favore di un’analisi tutta interna al testo. Crediamo invece che il romanzo di Hugo vada ripreso in considerazione, non certo per giocare alle mancate corrispondenze – criterio, questo sì, illegittimo e sciocco – ma per osservare come abbia operato il filtro della riduzione teatrale e cinematografica e come le scelte di regia siano condizionate da questa rielaborazione dei contenuti. E il primo, grande contenuto si chiama Rivoluzione.

Do you hear the people sing? Singing a song of angry men? Non distintamente, a dire il vero. Perché Les Misérables rinuncia a restituire al musical di Schönberg e Boublil ogni reale spessore storico e ideale, che vada al di là di una dimensione intimistica o solo superficialmente corale. Al contrario, in un eccesso di fedeltà al testo teatrale, ne ripete passo a passo le semplificazioni – semplificazioni che, certo, ne hanno decretato il successo mondiale per 27 anni – strizzando l’occhio allo spettatore, ansioso di ritrovare le ben note canzoni del musical e i ben noti intrecci amorosi. In questo modo, il film risulta spaccato a metà, tra una prima parte perfettamente a fuoco, intensa e toccante, e una seconda caotica e dispersiva, che salta di scena in scena, di volto in volto, senza dare mai pregnanza a nulla.

Resta così scolpito nella memoria, sin dalle primissime scene, lo scontro titanico tra Jean Valjean e Javert, tra la miseria illuminata dalla Grazia e l’ottusa intransigenza della Legge, tra la forza del perdono e l’assolutismo della morale, grazie alle straordinarie interpretazioni di Hugh Jackman e Russell Crowe e alle inquadrature strette sui volti, su occhi fissi o imploranti, labbra chiuse o contratte in smorfie di dolore, mentre il canto prorompe sicuro o flebile e esitante. E resta la notevole performance di Anne Hathaway che dà voce e corpo all’innocenza di Fantine, alla sua discesa agli inferi e, nel momento forse più toccante del film, al ricordo di illusioni passate in I dreamed a dream. Con la sua morte e l’incontro di Jean Valjean con la figlia di lei Cosette, questa compattezza e questa intensità cominciano a venire meno. Innanzitutto, con l’arrivo sulla scena dei Thénardier, genitori adottivi di Cosette, interpretati da Sacha Baron Cohen e Helena Bonham Carter, che, a parte un’introduzione iniziale fin troppo lunga, macchiettistica e sopra le righe, non vengono minimamente approfonditi nel corso del film, ma utilizzati come semplici connettori tra scene ed eventi, in modo spesso confuso e pretestuoso (la prima sequenza parigina con i Thénardier che riconoscono Valjean e l’arrivo sulla scena di Javert è tra le più frettolose e raffazzonate del film).

E non si tratta tanto di una necessaria riduzione ma di una precisa scelta di valorizzare determinati aspetti a scapito di altri, di semplificare fino a banalizzare. A farne le spese è tutto il contesto storico-ideologico, che il film traduce in un generico sommovimento non meglio definito, fatto di qualche barricata e bandiera, di figure sbiadite private di ogni dimensione storica e di un’epicità di superficie non ancorata ad alcun orizzonte di senso. Emblematici, da questo punto di vista, l’inconsistenza del personaggio di Enjolras e di qualsiasi partecipante agli scontri e il canto di Gavroche colpito a morte (never kick a dog because he’s just a pup), l’ennesima occasione persa di introdurre una tematica cardine come quella del tramonto delle illusioni libertarie ed egualitarie e della fiducia illuministica nella ragione. Uno spazio che viene invece concesso a profusione al triangolo amoroso Marius-Cosette-Éponine e al tormento della figlia dei Thénardier (interprete di On my Own, uno dei momenti musicalmente più bassi del libretto). Nonostante questo la figura di Cosette, interpretata dalla pur brava Amanda Seyfried, resta poco più di un’ombra, schiacciata tra il padre, l’amato, la rivale e gli ambiziosi momenti corali del film (come One Day More, che coinvolge l’intero cast in un’emozionante panoramica sui momenti precedenti gli scontri).

Bisogna aspettare il ritorno a una dimensione più intima e personale perché il film riconquisti la sua intensità: il suicidio “filosofico” di Javert (naturale conseguenza di un intelletto che non ammette aporie logiche e morali), la confessione di Jean Valjean e la sua morte, che suggella l’unione tra Cosette e Marius, un passaggio di testimone, la capacità, ancora una volta, di scegliere il bene. Nel ricordo – con lo spirito di Fantine e del Monsignore a rappresentarlo – di parole e gesti che cambiano la vita, dell’Amore che dà direzione e senso alle scelte, della libertà, conquista degli uomini, siano essi nobili o Miserabili.

Scritto da Barbara Nazzari.

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