Paranormal Activity: incontri paranormali con i primi tre tipi. E’ appena sbarcato nelle sale italiane il quarto capitolo di Paranormal Activity, che con paranormale tempestività è stata diffusa la notizia della realizzazione del quinto film della serie, la cui uscita è stata confermata per Halloween 2013. Non solo: pare che la Paramount sia intenzionata a realizzare uno spin off per il pubblico latino, previsto per la primavera dell’anno venturo.

Non serve un genio del marketing per interpretare tanta feconda laboriosità attorno a questa serie. Basti ricordare come il prototipo, a fronte di un budget risicatissimo (15.000 dollari), abbia incassato al botteghino oltre 193 milioni di dollari. Da allora, è stato sfornato un capitolo all’anno, con risultati altrettanto lusinghieri. Mentre nel primo film col budget limitato si è semplicemente tentato il colpaccio, in quelli successivi il meccanismo è diventato solare: si gioca al risparmio negli effetti, con la certezza di uno zoccolo duro che garantisca un profitto stellare.

Questa è Hollywood, bellezza. Pur assodando che la serie è diventata una vero e proprio filone aureo, vale la pena, in coincidenza con l’uscita di Paranormal Activity 4, interrogarsi su quanto di nascosto, quasi di ectoplasmatico, sia rimasto, da un punto di vista più o meno “artistico”, a connotare un prodotto remunerativo, ma non per questo da liquidare frettolosamente sotto il profilo creativo.

La prima osservazione che vien da fare riguarda come ogni film sia stato collegato al precedente, pur mantenendo una sostanziale autonomia. La storia dei Paranormal Activity è la medesima: quella di un demone che infesta un’abitazione, finendo col possedere una o più persone e scatenare un pandemonio. Ebbene, in ognuno dei primi tre film non solo compaiono riferimenti espliciti ai precedenti capitoli, bensì viene innescato un singolare meccanismo di “prequel a catena”. Ogni storia precede la precedente, sia pure non in senso stretto – ed in questo la scelta rivela una certa originalità: c’è sempre una parziale sovrapposizione temporale tra le storie, oltre che di senso. I protagonisti del primo film, Micah (Micah Sloat) e Katie (Katie Featherston), sono rispettivamente il cognato e la sorella di Kristi (Sprague Grayden), personaggio centrale insieme al marito Daniel (Brian Boland) ed ai figli di Paranormal Activity 2. Entrambe le sorelle, poi, sono al centro dell’unico, grande flashback costituito da Paranormal Activity 3, che dunque è il prequel di entrambi i predecessori. Lo sviluppo narrativo si arricchisce ogni volta di dettagli determinanti, correggendo l’inevitabile ripetitività di un’estetica già vista.

E su quest’ultima si può svolgere un’ulteriore riflessione. Certo, Paranormal Activity ha reso in qualche modo “normativo” il formato del found footage nell’horror recente, ben più di Diary of the Dead di Romero, pur non inventando nulla. L’antesignano più famoso – altro esempio di profitto clamoroso – è quello di The Blair Witch Project, che ha però poi scontato una sterilità creativa assai più paralizzante rispetto alla serie di film prodotti da Oren Peli. L’illuminazione su questa differenza può venire da un insospettabile collegamento con un’altra serie horror recente, che si appresta a tornare (17 gennaio 2013) nelle sale italiane: quella di Rec, di cui in Italia sono stati pubblicati i primi due capitoli, ma sono stati già realizzati il terzo (Rec 3 – Genesis, uscito in Spagna) ed il quarto (Rec 4 – Apocalypse, le cui riprese iniziano a fine 2012). Nei Paranormal Activity, sia la struttura che l’abito visivo restano in buona sostanza i medesimi: ambientamento in una casa, riprese attraverso una camera per lo più fissa, lunghe stagnazioni con impercettibili fenomeni paranormali, graduale presa di coscienza del pericolo, quarto d’ora finale con manifestazioni plateali del potere demoniaco ed eventi delittuosi.

Ma chi ha visto l’intelligente Quella casa nel bosco di Drew Goddard, si sarà reso conto di come un horror possa prendere, ad un certo punto, una piega tale da inserirlo più scopertamente in uno dei tanti filoni che connotano il genere. Ebbene, una delle scelte più riuscite di Rec era stata quella di essere – almeno nei primi due film – un found footage horror sugli zombie, che però si colorisce delle tinte orrorifiche dell’horror “demoniaco”, quello da possessione diabolica. I morti viventi, meglio, gli infettati, finiscono per fare più paura per il richiamo ancestrale al maligno. Nei Paranormal Activity la posta raddoppia: non solo il tema della possessione compare in ogni film, trasformando l’haunted house story in un qualcosa di più complesso con uno spostamento dell’entità malefica dalla casa alle persone, bensì nel terzo capitolo s’introduce un elemento sabbatico, stregonesco, abbastanza sorprendente, per cui, come già molto prima Rosemary’s Baby di Roman Polanski, non c’è sono il paranormal… ma anche l’activity, ossia l’identificazione di un villain umano, un agente in contatto con le forze del male. E, francamente, non ci sentiamo di dire che sia un pastiche pasticciato, vista l’oleata consequenzialità tanto della vicenda, quanto dell’affiorare di una natura multi-genere.

Se, quindi, i primi tre Paranormal Activity non rifondano né il found footage, né le rispettive tappe di svolgimento interno, riescono quantomeno, per uno spettatore disposto ad accondiscendere ad alcune reiterazioni, a rinnovare il meccanismo della paura: la fenomenologia, si potrebbe concludere, resta la stessa, ma l’eziologia cambia, e con la sottile metamorfosi del soprannaturale risuonano diversamente le corde emotive del terrore.

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