Il Pinocchio di Carmelo Bene è un’opera che nasce come spettacolo teatrale, con varie versioni che si susseguono dal 1961 fino al 1998, ma della quale vi sono anche alcune edizioni radiofoniche, una discografica e, non ultima, una produzione per la televisione del 1999 dal titolo Pinocchio, ovvero lo spettacolo della provvidenza, che sarà trattata di seguito. In questo caso la macchina attoriale divora quasi tutti i personaggi: Pinocchio (ovviamente), Geppetto, Mastro Ciliegia, il Grillo parlante, Mangiafuoco, Volpe, Lucignolo; a Sonia Bergamasco, unica altra presenza sullo schermo insieme a Bene, non resta che interpretare la Bambina, e di prestare il suo corpo ad alcuni personaggi a cui Bene dà la voce.

Questo Pinocchio si ispira fortemente alla storia di Collodi, ma subisce il processo beniano di frantumazione e ricomposizione del testo tipica dell’artista salentino. Le vicende del burattino avvengono all’interno di una stanza con un pavimento a quadri bianchi e neri, quasi a voler far sembrare ciò che accade a Pinocchio una partita a scacchi con il destino. Il Pinocchio beniano diventa allora una riflessione sul rifiuto del passaggio dall’infanzia alla vita adulta, concetto centrale in tutta la filosofia artistica del regista che vede nel restare bambino il concentrarsi di tutto il potenziale dell’esistente non ancora realizzato ma sospeso nel possibile. Il bambino, in Bene, è uno stato in cui tutto è virtualmente realizzabile.

L’atmosfera creata è fuori dall’umano, i due attori diventano una sorta di marionette, o, meglio, delle bambole meccanizzate che muovono la bocca; l’immagine data ricorda la meccanicità degli attori-angeli-statue di Hommelette for Hamlet. L’oblio dell’io dell’attore viene spinto all’estremo da tutta una serie di impedimenti intelligenti e affascinanti, utilizzati in maniera esemplare: prime fra questi sono sicuramente le maschere ideate da CB, seguite dalle scenografie (il tutto realizzato da Tiziano Fario). Grazie all’apertura della maschera sulla bocca e il mento, e al fatto che  queste parti del volto vengono truccate in maniera da sembrare un prolungamento della maschera, sembra che i volti parlino veramente come dei robot, acquisendo così un impatto visivo straordinario. L’attore diventa presenza animata da qualcosa di esterno, diventa soggetto agito da qualcosa che va al di là della volontà personale. Questo effetto inorganico/animato viene accentuato dal lavoro sulla voce, che viene registrata e poi associata in postproduzione al personaggio con un effetto di asincronia voluto e evidente. Pinocchio in effetti è l’apoteosi della ricerca vocale messa in opera da Bene lungo tutto il proprio percorso artistico: la differenziazione vocale fra i personaggi, l’utilizzo del playback, o, per usare un’espressione che l’artista preferiva, del parlarsi adosso, l’amplificazione, la distorsione, l’eco sono tutti elementi che partecipano a rendere unico il lavoro sulla voce beniana. Il microfono e qualsiasi altro strumento elettronico applicabile alla voce non è mai stato per Bene  qualcosa da utilizzare per coprire le manchevolezze della limitata capacità vocale umana, ma piuttosto uno strumento musicale da far suonare con le corde vocali.

Oltre alle voci, fondamentali, per la ricerca e la resa nell’economia dell’opera, sono anche i rumori, e le musiche realizzate da Gaetano Giani Luporini, le quali accompagnano le immagini aiutando a creare una realtà sospesa, magica, spesso facendo ricorso a flauti e campanelli; un bell’esempio di questo si trova nel momento in cui Geppetto mangia delle pere, nel quale l’accompagnamento musicale mima un carillon magico. La visione di Pinocchio, da questo “punto di ascolto”, potrebbe creare dipendenza, e indurvi a canticchiare alcuni motivetti per casa almeno fino al prossimo e ultimo appuntamento della nostra rassegna su Bene, che parlerà dell’Otello.

Scritto da Anna Silvestrini.

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