The Possession di Ole Bornedal. Se ad ogni horror sul tema della possessione toccasse in sorte di confrontarsi con L’esorcista di William Friedkin, probabilmente saremmo costretti a bocciare il grosso dei nuovi titoli. Fuori dalle ombre scomode, The Possession s’inserisce senza strafare nel filone, come un buon prodotto di artigianato orrorifico e di rimarchevole patinatura visiva, sia pure con qualche sfilacciamento nel racconto.

Emily (Natasha Calis) ha undici anni e genitori da poco divorziati, Stephanie (Kyra Sedgwick) e Clyde (Jeffrey Dean Morgan). Ad un mercatino di quartiere convince il padre a comprarle una scatola con una strana incisione. A casa la apre, ignorando di aver liberato un demone della tradizione ebraica, un Dybbuk. E di aver aperto “il vaso di Pandora” delle inquietudini familiari.

L’incipit da demoniaco Ok Corral, con la scatola posseduta che si sbarazza della vecchia proprietaria, è impattante, freddo come la morte. Più che introdurre la storia – i cui sviluppi si delineeranno in maniera piuttosto scolastica – sembra tarare la raffinata cristallizzazione visiva della fotografia di Dan Laustsen, utile a gelare il sangue con intelligente effetto horror vintage ben scongelato. La linearità dell'”iter della possessione” – contatto demoniaco, sgomento iniziale, accettazione del soprannaturale, esorcismo – dissipa parte della tensione, ma pare che l’imputazione spetti ad una certa mancanza di brio della sceneggiatura (Juliet Snowden e Stiles White), riscattata dall’elegante messa in scena del danese Ole Bornedal. Da questo punto di vista, rispetto ai cult dell’esorcismo, l’aspetto leggermente diverso – e di apprezzabile sottigliezza – risiede nella consistenza visiva assunta dalla presenza demoniaca: se l’adolescente di Friedkin demarcava il territorio del male con liquidi organici (urina, sangue, vomito), nel film di Bornedal il volo diabolico ed iterato delle falene, la presenza dello specchio nella scatola, l’ossessione dei denti come evocazione iconica di rituali stregoneschi, perfino l’apparizione della maschera malefica nella risonanza magnetica, segnano il senso dello sconfinamento malvagio fuori dall’angustia della cassetta, con un’incisività atmosferica di vago sapore gotico, piuttosto insolita per il genere.

L’altro aspetto significativo – nomen omen? – risiede nella “gestione” della gradualità della possessione, che assume valore per due aspetti. Il primo è che alla protagonista sono lasciati scampoli di lucidità – “chi è Emily? Chi sono io?” – che esprimono la truculenza psicologica della cosciente perdita d’identità: per intenderci, come quando Caravaggio dipinge su di uno scudo la testa della Medusa, pullulante di serpenti, appena tranciata da Perseo, tanto più orrenda perché si accorge di essere separata dal corpo, urlante per il raccapriccio, ma spaventata più che spaventosa. Il secondo è l’ambiente familiare: Emily, già sradicata dall’unità domestica, appare ai propri genitori come la figlia di due divorziati, fisiologicamente a nervi tesi, laddove in realtà l’effetto è il contrario, ossia è la sua “malattia” a corrodere ulteriormente il nido ed a produrre un’ulteriore alienazione.

In questo senso, la trama è forse più complessa di quanto non appaia, profilandosi come la vicenda di una “spossessione”, più che di una possessione, e riuscendo così meno terrificante, ma più ricca di spunti e nuances. Poco importa se inspiegabilmente – e quindi, maldestramente – un personaggio sparisce letteralmente nel nulla, se poi  il novero dei protagonisti si colorisce con la singolare figura dell’esorcista rabbino, che somministra liturgia come lo spit dell’hip hop.

Prodotto da Sam Raimi, The possession è stato già massacrato da mezza critica, quella degli aristocratici monocoli, per intenderci. Forse, al 2012, non è ancora chiaro esattamente cosa sia l’horror, e come funzioni la sospensione dell’incredulità all’interno di questo genere. D’altronde, non a caso il film è buon artigianato, come dicevamo, e nulla più: ciò non toglie che possa impossessarsi, per 90 minuti scarsi, dell’attenzione dello spettatore, e soprattutto del suo sguardo. Scusate se è poco.

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Alice C.Giusy P.
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