L’Intervallo di Leonardo di Costanzo, già apprezzato documentarista, è stato uno dei film di maggiore successo della recente ultima edizione del Festival di Venezia, dove è stato presentato nella sezione ‘Orizzonti’. Oltre alle polemiche sulla sua mancata presenza nel concorso ufficiale, dove secondo molti avrebbe meritato più di altri film italiani, l’opera ha vinto numerosi premi collaterali, tra cui il ‘Premio Fipresci’ per la sezione Orizzonti e Settimana della Critica, il ‘Premio Francesco Pasinetti’, consegnato dal sindacato nazionale critici cinematografici, e il ‘Premio Uk-Italy Creative Industrie Award-Best Innovative Budget’.

Una prima, distratta lettura della trama, la visione del trailer e i primi 5 minuti possono far pensare ad un’altra più o meno bella copia di Gomorra, meritevole per l’impegno e per la testimonianza civile (o, a seconda dei punti di vista, meritevole dell’accusa di furbizia finto-impegnata), ma non particolarmente stimolante dal punto di vista cinematografico o narrativo. Troviamo così un realismo cronachistico, il dialetto napoletano stretto, aderenza con la realtà sociale, piani sequenza con macchina quasi fissa, ambientazione e protagonisti umili e popolari e una firma stilistica volutamente abbastanza anonima: L’intervallo non impiega però molto a sorprendere e a smentire queste attese, rimanendo sì ancorato alla realtà di riferimento, ma mostrandosi anche più efficace nello spiegare quel contesto proprio per il fatto di cercare una strada diversa da quella di solito maggiormente percorsa.

Il tono scelto fugge dal naturalismo per sfiorare quasi il favolistico, sostenuto da un’atmosfera quasi fiabesca, da fiaba dark, che si basa sulla splendida fotografia di Luca Bigazzi, ottima nel sottolineare i giochi di ombra e luce in cui si nascondono i personaggi nel loro graduale avvicinamento, e che esalta gli spazi dell’enorme villa abbandonata dove si svolge la vicenda. Anche l’efficace uso scenografico degli spazi della villa, con gli stanzoni nascosti che sembrano celare misteri e i corridoi che paiono passaggi segreti, oltre all’incolto giardino che assomiglia ad una foresta, aumentano la sensazione di trovarsi in un luogo diverso dalla realtà, anzi contrastante con essa, senza dimenticare i numerosi riferimenti agli uccelli, simbolo della fuga.

Dopo la prima sequenza che mostra nella sua tipica quotidianità all’inizio di una giornata lavorativa, il giovane protagonista Salvatore, venditore di granite, interpretato dall’esordiente non professionista Alessio Gallo, una significativa ellissi narrativa trasporta lo spettatore in un’altra mattinata simile, con lo stesso personaggio e la stessa ambientazione. Questa volta il compito che attende Salvatore è ben diverso dal preparare il succo di limone per la granita: suo compito è, infatti, sorvegliare la diciassettenne Veronica (Francesca Riso, anche essa esordiente non professionista), lì imprigionata per un non specificato sgarbo al boss del quartiere. Nell’arco della giornata i due superano l’iniziale diffidenza, entrano in confidenza; nasce presto una tenera amicizia e l’affetto e l’intesa reciproche aumentano con il passare delle ore. I due si confrontano, giocano, si scambiano i sogni e scoprono di essere simili, entrambi estranei alla realtà che li circonda, ma che allo stesso tempo non lascia scampo e scelta. L’universo camorristico della periferia di Napoli è come la gabbia che chiude l’uccellino della filastrocca recitata nella primissima inquadratura: ti imprigiona per così tanto tempo che ti entra dentro e, anche quando hai uno spiraglio di fuga, la voglia di scappare è scomparsa. Nel finale, infatti, il ritorno dell’opprimente realtà mette la parola fine sulla piccola favola raccontata, sulla tenera storia d’amicizia tra i due protagonisti, prima l’una vittima e l’altro carnefice, poi entrambi vittime solidali di un contesto che, al massimo, può concedere ‘L’intervallo’ di una giornata per avere l’illusione di potere sfuggire.

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Chiara C. Giusy P.
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Salvatore Ruocco