Non è un caso se The Good Wife e è la serie con più attori nominati agli Emmy 2011. Ciò che subito salta agli occhi nella serie dei coniugi King è la direzione degli attori, dall’impeccabile protagonista (Julianna Margulies), ai personaggi più o meno secondari (Will/Josh Charles e Diane/Christine Baranski su tutti, ma anche il fratello di Alicia, Owen/Dallas Roberts, e la suocera Jackie/Mary Beth Peil), alle eccellenti guest star (i ricorrenti Michael J. Fox, Mamie Gummer, Martha Plimpton, ma anche Leelee Sobieski e Denis O’Hare), che danno vita a caratterizzazioni perfette e variegate, sempre supportate da sceneggiature eccellenti.

[ATTENZIONE SPOILER!]

Le storyline principali si dipanano ancora tra la vita lavorativa di Alicia Florrick e quella familiare: la prima stagione ci aveva lasciati sospesi allo squillo di un telefonino, ma ora Alicia ha fatto la sua scelta di fedeltà al marito Peter/Chris Noth (anche se solo per “ignoranza” dei veri sentimenti di Will, che un provvidenziale Eli si appresta a cancellare dalla segreteria telefonica). Nel frattempo alla Lockhart&Gardner arrivano nuovi elementi destinati a creare problemi: il neo-socio Derrick Bond (Michael Ealy), e il suo ambiguo sodale, il detective Blake Calamar (Scott Porter).

Più che nella prima stagione, le dimensioni del lavoro e del privato rimangono separate: se all’inizio questa scelta sembra diminuire la coesione della storia, in realtà giova all’autonomia dei personaggi e alle loro azioni, che non sono più Alicia-centriche e regalano momenti di pura, intrigante suspense, ad esempio nell’orchestrazione della trappola per estromettere Bond dalla direzione della L&G da parte di Will, Diane e David Lee/Zach Grenier (culminante nell’episodio 2×16, “Great Firewall”).

Peter Florrick è in corsa come procuratore, e la campagna elettorale, guidata da un Eli Gold (Alan Cumming) un po’ più umano di prima ma comunque capace di insuperabili perle di cinismo, è occasione per scandagliare i retroscena strategici della creazione del consenso, tra video virali, blog e dibattiti televisivi; intanto un’insospettabile e, sulla carta, imbattibile rivale si aggiunge alla corsa tra Florrick e Childs, permettendo di indagare dall’interno il panorama politico americano, con la sua sottile linea tra onestà e inganno, tra verità e calunnia.

The Good Wife dà il meglio di sé quando i casi trattati si intrecciano con l’attualità, le strategie politiche, le contraddizioni della contemporaneità, sottolineando concreti dilemmi etici e morali: nella premiere, “Taking Control”, si affronta lo spinoso problema dell’hackeraggio; in ”Vip Treatment” (2×05) il problematico caso di una massaggiatrice che accusa uno stimato e potente premio Nobel per la pace di molestie sessuali si rivela quasi premonitore se pensiamo al caso Strauss-Kahn; “On Tap” (2×08) ruota tutto intorno alle intercettazioni telefoniche; “Nine Hours” (2×09) riesce ad affrontare la pena di morte con una profondità e una pluralità di punti di vista raramente viste in soli 40 minuti; e ancora class action (2×06, “Poisoned Pill”, 2×13, “Real Deal”) e cause contro aziende senza scrupoli (2×19, “Wrongful Termination”).

Se proprio vogliamo trovare delle pecche, possiamo definire non del tutto riuscite le “sperimentazioni” del caso simil-Zuckerberg (“Net Worth”, 2×14) e l’improbabile coinvolgimento di Chavez in “Foreign Affairs” (2×20), e un po’ deludente la risoluzione del misterioso segreto di Kalinda/Archie Panjabi, tuttavia assolutamente riscattata da un’emozionante gestione delle reazioni di Alicia alla scoperta del doppio tradimento di Peter e dell’amica (in 2×21, “In Sickness”, e 2×22, “Getting Off”). Ma le debolezze sono davvero poca cosa di fronte all’affresco sfaccettato della società statunitense che emerge dalla lente d’ingrandimento dello studio legale L&G, e al carico di sofferenza, tensione, coinvolgimento che accompagna ogni scelta e decisione di Alicia (e di tutti gli altri): mai banali, mai semplici, mai unilaterali.

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