Un pomeriggio di sole a Cambridge. Non è così frequente da queste parti, ma oggi sembra primavera. La gente si accalca attraverso le strade e di fronte alle vetrine: studenti in divisa alla Harry Potter, ragazzi con la maglietta al contrario indossata distrattamente dopo una notte di bevute al Regal, ragazze che hanno da poco smesso gli abitini micro della sera prima e relativo cerchio alla testa per indossare jeans comodi e sneakers.

Un vecchio – sembra uscito da un racconto di Stevenson – mi chiede una sigaretta. Decido di offrirgliela, dopotutto ho il pacchetto nuovo in mano (con quello che costano da queste parti, tra l’altro, vabbé!). Lui la accende con un vecchio zippo da metallaro, si sistema la barba con enfasi e biascica qualcosa in un inglese a malapena comprensibile: sta indicando l’insegna di un vecchio negozio di dischi. Three Pounds Music, mate! mi sussurra in tono confidenziale.

Decido di entrare nel negozio. L’atmosfera è fumosa ma tutto sommato allegra. Dietro al bancone ci sono due ragazzotti ben piantati, tra il reparto jazz/blues e dance/hardcore un neo-hippie in cerca della nuova Woodstock si chiede che effetto farebbe mischiare un pezzo di Ella Fitzgerald con una base tipo alla Rusko (se vi chiedete chi sia quest’ultimo distinto signore fatevi una ricerca sul tubo e poi scrivetemi per gli insulti, capirò perfettamente).

Dall’altra parte del negozio, invece, una coda si sta formando per il settore dvd nuovi arrivi, dove sembra che tutte le liceali dell’East Anglia si stiano accapigliando per aggiudicarsi il nuovo dvd live@non-lo-so di Justin Bieber.

Reprimo un moto di disgusto e mi fiondo verso il settore offerte imperdibili. Con piacere trovo il meglio del pop made in UK degli ultimi anni: vedo dischi dei Kasabian e dei Kaiser Chiefs a prezzo stracciato, qualcosa di Carl Barat, Richard Ashcroft, i Gallagher e compagnia bella. Se non fosse che a casa ce li ho già tutti, mi comprerei l’intero scaffale. C’è però una cosetta che mi manca, e di cui tutti me ne parlano da un bel pezzo. Non sono inglesi ma vengono da New York: sono gli MGMT e l’album Oracular Spectacular occhieggia seducente dalla quarta fila dall’alto. Solo tre pound, perché no? Commerciale, certo, come tutto del resto. Lascio a casa i pregiudizi radical chic e mi sparo una quarantina di minuti con gli MGMT sul treno per King’s Cross. Si comincia con la celeberrima Time to Pretend, resa famosa anche dal film 21 con Kevin Spacey. Sembra di vederli ballare questi hippie del duemila, con tamburi, effetti psichedelici e sound sintetici. Poi arriva Weekend Wars, commuovente pezzo alla David Bowie di Ziggy Stardust: vedo le gocce di pioggia rigare il vetro del treno per Londra, mentre un grasso tifoso dell’Arsenal di fianco a me sta prosciugando senza pietà una lattina di birra. Si continua con The Youth, e adesso il caffè in cartone dello Starbucks tarocco della stazione di Cambridge inizia a gocciolarmi da tutte le parti: le tonalità a volte amare e intime di questo pezzo mi ricordano i Blur di 13 e qualcosina alla Radiohead e finalmente capisco la ragione del successo di questi giovani yankee cappelloni nel regno di Sua Maestà.

Electric Feel, probabilmente il pezzo più famoso del gruppo (e che quindi non ha bisogno di grandi presentazioni), prorompe di forza e ti accompagna verso Kids, un misto electro dance dal ritornello accattivante che all’inizio non ti dice molto ma dopo un po’ non te lo scolli neanche se vuoi.

Nella seconda parte, oltre a sperimentalismi sciamanici (che fanno sempre tanto figo e che comunque vanno messi oggi come oggi se vuoi darti un tono) mi colpisce Pieces of What, una specie di ballata apocalittica e triste, dal testo criptico, dalle percussioni old style e dall’abbinamento piano-basso che mi fa sempre molto David Bowie e scusate se mi ripeto. Anche Of Moons, Birds & Monsters, come direbbe un mio amico, c’ha un bel tiro. Il groove è coinvolgente ma ormai sono quasi arrivato alla fine del disco (e della pagina).

Ecco che il caffè in cartone mi gocciola ancora una volta (sarà mezzo litro di caffè incandescente e soprattutto infinito, ci vuole una vita solo per arrivare a metà) e questa volta finisce sui jeans del grassone dell’Arsenal.

E’ gelo, nonostante la temperatura della brodaglia.

Il tizio si volta di scatto, mi guarda e qui decido di spegnere il mio Ipod, mentre un signore dall’aria attempata di fronte a me sfoglia un quotidiano gratuito.

Scritto da Massimiliano Lollis.

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